Della grande varietà di specie ittiche destinate al consumo umano che si trovano allo stato selvatico e di cui la pesca rifornisce i mercati, l’acquacoltura ci offre una selezione piuttosto limitata (circa 250 specie secondo la FAO).
Poiché non è sempre semplice allevare un organismo acquatico, la scelta delle specie che si prestano ad essere allevate è basata su considerazioni inerenti gli aspetti tecnologici quali la resistenza delle stesse alle condizioni di cattività, la redditività, la possibilità di avere un controllo della riproduzione e della crescita. Inoltre, questa scelta spesso ricade su specie per cui è alta la “qualità percepita”, cioè per cui è alta la richiesta da parte del consumatore finale.
Quando ci troviamo a dover fare la nostra scelta di fronte al banco del pesce, nel domandarci cosa realmente influenza la qualità di ciò che andremo ad acquistare, una delle domande a cui più frequentemente ci troviamo a dover rispondere è:
Pescato o allevato?
Secondo le stime degli studiosi del settore, questo dilemma non ci angustierà per molto tempo ancora. La pesca del selvatico, infatti, segna da ormai diversi anni una profonda crisi a causa del depauperamento delle risorse ittiche naturali, spesso determinate dall’eccessivo sfruttamento della pesca. In un quadro in cui la popolazione mondiale aumenta e la disponibilità di pesce selvatico resta costante o addirittura si riduce, è facile pensare che le attività di allevamento del pesce rappresentano ormai una necessità più che una scelta. Tutto ciò, naturalmente, prescinde da qualsiasi giudizio soggettivo di preferenza verso il prodotto pescato rispetto a quello allevato. Da questo punto di vista, l’allevamento ittico può essere visto come una risorsa che è necessario sfruttare con intelligenza.
Allevato come?
Esiste oggi tanta confusione sul tema della qualità del pesce allevato, spesso alimentata da leggende e falsi miti. Per fare un po’ di chiarezza, iniziamo col convenire che certamente diverse pratiche di allevamento determinano diverse qualità del prodotto finito. Per fare alcuni esempi, l’allevamento può essere più o meno intensivo (cioè discostarsi dalla condizione del selvatico), i pesci possono essere alimentati con mangimi commerciali di diverse qualità (e prezzi!) e l’allevatore può decidere di alimentare secondo razioni controllate o fino a raggiungere la sazietà. Numerose ricerche vengono oggi svolte sull’alimentazione dei pesci allevati, e spesso derivano da una stretta sinergia fra ricerca pubblica e privata, come nel caso del progetto 4F-Fine Feed For Fish. Da queste collaborazioni nascono nuove formulazioni mangimistiche “cucite a misura” sui requisiti nutrizionali delle specie allevate, dove i vari nutrienti vengono forniti nella giusta proporzione e nella forma più adatta al loro assorbimento. E’ per questo che, ad esempio, la qualità nutrizionale di un pesce allevato può essere superiore a quella di un pesce selvatico.
Oltre alla sua qualità organolettica e nutrizionale, anche lo stato di benessere del pesce è determinato dalle condizioni di allevamento. Oggi esistono tanti studi specifici sul controllo delle malattie batteriche e virali di pesci a pinne, e tanto si sta facendo sul controllo delle parassitosi, per cui spesso un trattamento alimentare del pesce con prodotti naturali nutraceutici permette di eseguire la giusta profilassi, prevenendo problemi e perdite economiche. In definitiva, fare produzioni che puntano alla qualità, anche nell’allevamento del prodotto ittico, è una scelta dell’imprenditore.
Allevato dove?
I prodotti che troviamo sui banchi delle pescherie italiane, possono aver affrontato un viaggio più o meno lungo. Anche le condizioni di conservazione durante il viaggio possono variare. Un prodotto locale tenderà ovviamente a conservare le sue caratteristiche quando raggiunge la nostra tavola più che un prodotto importato. Eppure, l’Italia importa oltre il 60% del prodotto ittico che consuma. L’ossidazione lipidica, ad esempio, che porta ad un progressivo irrancidimento dei grassi, è un fenomeno molto importante nel determinare la qualità nutrizionale ed organolettica di un pesce trasportato, in particolare su pesci grassi come il salmone oppure l’orata e la spigola. L’Italia, che non può competere con altri paesi per quantità prodotte, deve puntare sulle produzioni di qualità, quindi sull’allevamento razionale e sulla stretta sinergia con il mondo dell’innovazione e della ricerca. In effetti, già in passato, questa scelta di qualità ha salvato le produzioni italiane dalle diverse crisi che il mercato del pesce allevato ha incontrato. Una scelta che forse costa qualche euro in più, ma che può offrire buone garanzie ad un consumatore più consapevole e informato.
Fonte: Roberto Anedda, Porto Conte Ricerche