Le informazioni in merito alla opportunità o meno di consumare latte, ai suoi benefici e ai presunti rischi sull’organismo sono molteplici e contraddittori e la stessa scienza non fornisce dati e risultati unanimi sull’argomento, caratterizzato da troppe variabili che non possono essere controllate. A questo si aggiungono considerazioni etiche, molto in voga sul web, che considerano “non naturale” per gli adulti assumere latte. Il progetto FARM-INN ha finalmente portato un po’ di chiarezza.
Professor Marsan, in questo mare di dati discordanti, dove si trova la verità?
Ci troviamo in una situazione in cui alcuni studi associano il consumo di latte ad un aumento del rischio di contrarre malattie, secondo altri articoli invece il latte risulta avere un effetto protettivo sull’organismo; probabilmente non è possibile generalizzare. Da una parte, nel caso di allergia a qualche proteina del latte o intolleranza al lattosio è sempre meglio astenersi dal bere latte per evitare l’instaurarsi di reazioni avverse. Dall’altra, il latte ha un contenuto di proteine ad alto valore biologico, minerali e vitamine che soddisfano molte delle esigenze nutrizionali dell’uomo.
Esiste un dato imparziale che, nonostante opinioni e risultati altalenanti, possa fornire un parere univoco sull’opportunità o meno di bere latte?
Il nostro genoma è sicuramente il migliore giudice imparziale su cui possiamo contare. Le nuove tecnologie di analisi genomica ci permettono di conoscerlo a fondo, distinguendo e valutando i geni utili da quelli deleteri. Possiamo quindi chiederci se il gene che ci permette di digerire il lattosio da adulti sia utile e in caso di una valutazione positiva, potremmo concludere senza dubbio che il latte faccia bene. Se il gene della lattasi, che permette di digerire il lattosio da adulti, avesse una valutazione positiva, potremmo concludere senza dubbio che il latte fa bene.
Che cosa racconta il nostro genoma sul gene della lattasi?
La lattasi è l’enzima responsabile della digestione del lattosio, lo zucchero del latte. Nell’uomo come in altri mammiferi l’espressione di questo gene è regolata nella fase di crescita e cessa dop lo svezzamento. Questo vuol dire che gli adulti non dovrebbero essere in grado di digerire il lattosio. Tuttavia, si riscontra che la produzione di lattasi in alcune popolazioni umane continua per tutta la vita. Il gene della lattasi ha varianti dovute a mutazioni avvenute nel tempo ed in popolazioni diverse. Queste mutazioni sono considerate positive e il gene si riscontra frequentemente nelle popolazioni che hanno tradizionalmente praticato l’allevamento del bestiame come fonte di cibo, come le popolazioni europee, africane orientali e meridionali, mediorientali e asiatiche meridionali. È chiaro come la capacità di digerire il lattosio è stata per queste popolazioni di fondamentale importanza, visti i preziosi valori nutrizionali di questo alimento, che hanno permesso la sopravvivenza e l’espansione demografica in regioni con scarse fonti di cibo alternative. Quindi il nostro genoma ci dice che il latte fa bene, che ha accompagnato nei millenni l’evoluzione dell’uomo allevatore, che ha tratto beneficio dalla persistenza della lattasi e dal consumo di un alimento di alto valore biologico.
Professor Trevisi, il latte contiene le beta-caseine, particolari proteine che a loro volta possono essere di due tipi, A1A1 e A2A2: è vero che esiste una diversa risposta fisiologica da parte dell’uomo in funzione delle beta-caseine presenti nel latte?
Questa domanda è proprio uno dei quesiti che ha dato origine al progetto FARM-INN, in quanto ci sono pubblicazioni scientifiche che riportano una correlazione tra il consumo di beta-caseine A1A1 e l’insorgenza di patologie, anche con il coinvolgimento del sistema nervoso centrale. Negli studi effettuati nell’ambito di FARM-INN abbiamo realizzato una sperimentazione utilizzando come modello animale il topo, alimentato con diete molto ricche di caseina, contenente le due differenti varianti di beta caseina, laA1A1 o la A2A2. Per la prima volta, grazie alle tante competenze interdisciplinari presenti nel progetto, abbiamo messo a punto un modello sperimentale molto articolato. Lo scopo era duplice: verificare gli effetti cronici delle diete sui topi alimentati con le due diverse caseinee valutare gli effetti infiammatori.
Qual è stata la peculiarità dello studio e quali le conclusioni?
La complessità della prova sta nell’avere esaminato effetti clinici, comportamentali, di performance, metabolici, istologici e di espressione genica in vari tessuti (cervello, intestino, fegato) per scoprire se ci fossero eventuali diversità tra gli effetti indotti dal consumo delle due forme di caseine. Non abbiamo osservato differenze sostanziali sullo stato sanitario dei topi, ma abbiamo rilevato che i topi alimentati con caseina A2A2 hanno mostrato una minor crescita e livelli di trigliceridi e urea ematici più bassi.
In sostanza, sebbene secondo alcuni lavori scientifici il consumo di latte con beta caseine A2A2 è più salubre per l’uomo rispetto al latte contenente beta caseine A1A1, possiamo affermare che dalle nostre ricerche questo non viene confermato, ma emergono alcune differenze fisiologiche nel modello utilizzato che richiedono ulteriori approfondimenti, per valutare le possibili conseguenze.
Sappiamo anche che le due varianti di beta-caseina vengono digerite a livello gastrico in modo diverso. Da alcuni studi infatti emerge che la variante A1 rilascia il “famoso” peptide BCM-7 (Beta Caso-Morfina 7), che invece non viene prodotto durante la digestione della variante A2. Dottoressa Caira cosa sappiamo di questo peptide e quali studi sono stati portati avanti nel progetto a tal riguardo?
Il peptide BCM-7 è un oppioide naturale che ha effetto pro-infiammatorio ed è associato a diverse patologie, fra cui quelle cardiovascolari, il diabete e persino l’autismo. Già EFSA, l’Autorità Europea sulla Sicurezza Alimentare, si è espressa ribadendo che non ci sono prove scientifiche valide che il peptide stimoli le patologie. Inoltre, sappiamo che anche la digestione influenza la formazione di BCM-7 ma non è ben chiaro il meccanismo.. Gli studi del progetto FARM-INN si sono quindi focalizzati sui meccanismi di origine della BCM-7 che dalle prove eseguite in vitro e su esseri viventi può avvenire sia nel processo digestivo, sia durante laproduzione di formaggi e yogurt. Dall’analisi effettuata sulla digestione in vitro emerge che il BCM-7 viene generato in entrambe le varianti A1A1 e A2A2, l’unica differenza è nella modalità con le quali il peptide viene degradato. Per quanto riguarda la digestione in vivo sono stati analizzati campioni di sangue prelevati da pazienti a cui sono stati somministrati 250 ml di latte e non è stato trovato in nessun caso il peptide BCM-7. Gli studi sullo yogurt e sul formaggio Parmigiano Reggiano a 48 mesi di stagionatura, evidenziano solo la formazione dei precursori della BCM-7 sia nel caso di variante A1 che nel caso di variante A2.
In conclusione, è chiaro quanto l’argomento sia complesso e controllato da molteplici fattori e variabili spesso ancora non conosciute. Questo determina risultati scientifici spesso contraddittori e non omogenei. Ci sentiamo tuttavia di affermare che il latte è senza alcun dubbio un alimento prezioso, che apporta nutrienti dai benefici indiscutibili per l’organismo umano e che, in assenza di allergie e intolleranze, possa essere consumato in sicurezza e apprezzato per le sue molteplici qualità, nonché per la sua ineguagliabile bontà!
Per informazioni
Erminio Trevisi, professore ordinario e direttore del Dipartimento di Scienze animali, della nutrizione e degli alimenti – DiANA dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, erminio.trevisi@unicatt.it
Paolo Ajmone Marsan, professore ordinario presso il Dipartimento di Scienze animali, della nutrizione e degli alimenti – DiANA dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, paolo.ajmone@unicatt.it
Simonetta Caira, ricercatore presso l’Istituto per il Sistema Produzione Animale in Ambiente Mediterraneo del Consiglio Nazionale delle Ricerche, simonetta.caira@cnr.it
A cura di Federica Tenaglia, Dipartimento di Scienze Bio-Agroalimentari – Consiglio Nazionale delle Ricerche